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Tarallo, sulla nostra tavola e nei nostri modi di dire. Scoprilo con Ascolese

News 20 Gennaio 2017
Tarallo, sulla nostra tavola e nei nostri modi di dire. Scoprilo con Ascolese

“Tutto finisce a tarallucci e vino, farsi il mazzo come il tarallo"… ecc ecc. Non solo buono da mangiare, simpatico anche in tanti modi di dire, napoletani e non. Scopri con Ascolese la storia del tarallo tra etimologia e modi di dire…

Il Tarallo oltre ad essere un simbolo della tradizione culinaria napoletana è interessante scoprirne anche le radici linguistico-semantiche.

Da dove nasca la parola tarallo non se ne ha certezza, e le ipotesi non mancano: c’è chi dice derivi dal latino “torrère" (abbrustolire), e chi dal francese “toral" (essiccatoio). Invece, se si fa riferimento alla sua forma rotondeggiante, qualcuno pensa che tarallo trae origine dall’italico “tar" (avvolgere), o dal francese antico “danal", pain rond, che vuol dire pane rotondo.

La tesi più accreditata resta però quella che sostiene che tarallo discenda dall’etimo greco “daratos", ovvero “sorta di pane". Comunque, se il dubbio persiste circa l’etimo da cui nasce tarallo, per certo si sa dove cresce: sotto un panno che ne favorisce la lievitazione. E soprattutto si sa quando il tarallo si è diffuso, e perché.

I taralli sono uno sfizio tutto napoletano, e sono nati per riciclare e non buttare via gli avanzi dell’impasto del pane. Lo racconta anche Matilde Serao nella sua famosa opera “Il Ventre di Napoli", quando ricorda quei creativi fornai del 700, che vivevano nei “fondaci" della città (le zone popolari a ridosso del porto, brulicanti di una popolazione denutrita che tanto soffriva la fame), che, anziché buttare via lo "sfriddo", cioè i ritagli, della pasta con cui avevano appena preparato il pane da infornare, ben pensarono di riciclarlo a dovere.

A questi avanzi di pasta lievitata aggiunsero, infatti, un po’ di “nzogna" (la sugna, ovvero lo strutto, il grasso di maiale) e tanto pepe, e con le loro abili mani ne ricavarono due striscioline. Poi con un tocco di fantasia le attorcigliarono tra di loro come una treccia, fino a formare una sorta di ciambella, e via nel forno, insieme al pane.

A quel tempo i taralli napoletani non aspettavano i clienti nei chioschi, come accade ancora oggi a Mergellina, o nelle panetterie; gli andavano incontro per la strada. A farlo era il “tarallaro", una caratteristica figura popolare che armato di cesta in spalla se ne andava battendo tutte le strade della città per vendere i taralli ai passanti.

Oggi se il “tarallaro", non esiste più, tanto di questo ‘costume’ sopravvive nel linguaggio e nei modi di dire napoletani. Ad esempio, per indicare una persona che, per una qualsiasi ragione, è solita spostarsi continuamente, o appare sbattuta di qua e di là dagli eventi, si dice “me pare ‘a sporta d’o tarallaro", ossia “Sembra la cesta del venditore di taralli".

Tale espressione in verità sembrerebbe avere anche altri significati. E così, secondo un’interpretazione meno nota, starebbe ad indicare colui che per pura pigrizia lascia che gli altri si approfittino di lui o delle sue cose. Questa versione trae credito dall’antica usanza di quei clienti occasionali dei tarallari che si servivano da soli con le proprie mani, rovistando nella cesta colma di taralli per scegliere quelli migliori. Per lo stesso motivo, chi si lamenta di quest’atteggiamento è solito dire “Ma che m’avite pigliato p’’a sporta d’’o tarallaro?" (Mi avete forse confuso con la cesta del tarallaro?).

Altro modo di dire è “Si te tirassene na sporta ‘e taralle, nun ne cadesse uno nterra“. Tale espressione, molto più cinica, è usata per alludere alla scarsa fedeltà del partner di colui cui la si rivolge. Il detto, infatti, che si traduce letteralmente con “Se ti tirassero una cesta di taralli non ne cadrebbe uno a terra. Perché? Pecchè tien’e ccorna! (Perché tieni le “corna") si riferisce alle numerose “scappatelle" della moglie con un altro uomo.

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Ma se in questa frase il tarallo fa danni, in un’altra espressione li ripara. È sempre grazie a lui che si fa la pace, e tutto finisce “a tarallucci e vino". Questo detto è nato nelle osterie, ed ha un senso blandamente denigratorio: il tarallo, già di per sé alimento povero, viene ridotto al rango di “taralluccio", a significare una soluzione un po’ superficiale di una controversia. Un “vogliamoci bene" di facciata, di maniera. Vuol dire che il problema s’insabbia e non se ne fa nulla, tipico dei politici, che litigano e se ne dicono di tutti i colori, ma quando conviene a tutti, va a finire a “tarallucci e vino”. I problemi si insabbiano e c’è da mangiare e bere per tutti.

Può avere anche un significato positivo. Quando qualcosa finisce a tarallucci e vino, può anche riferirsi ad un lieto fine nel caso di un diverbio fra amici per esempio, che litigano ma poi arrivano a fare pace e tutto finisce in una allegra mangiata e bevuta in compagnia.

Altra tipica espressione napoletana è “Mi sono fatto il mazzo a tarallo" per indicare un lavoro molto faticoso o un’attività molto stressante. Vuol dire che si è lavorato tanto per raggiungere un risultato, sacrificandosi e facendo delle rinunce.

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